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80.mo anniversario della “battaglia di Gambatesa”

Oggi ricorre l’80.mo anniversario della “battaglia di

Gambatesa” quando, dopo alcuni scontri, Gambatesa fu liberata dai canadesi. Di seguito, la testimonianza che rese zia mena per un libro che facemmo su Gambatesa (che, mi sembra, abbiate tutti). ” _RICORDI DI UNA BAMBINA

(di Mena Carozza)

Ero una bambina di cinque anni, quando gli aerei solcavano il cie lo di Gambatesa e

ancora oggi, quando sento gli “spari” dei fuochi d’artificio, sento un brivido ed evito di

prendere parte all’entusiasmo altrui, riaffiora, nella mia mente, il frastuono dei bombardamenti su

Gambatesa. Rivedo, con estrema chiarezza, l’arrivo dei camion zeppi di soldati tedeschi in

Piazza Municipio, là dove era la mia casa, le loro armi sempre a portata di mano, i loro

zaini, i loro cappelli … che paura, anche il solo guardarli. Un giorno arrivò un camion con

poche persone, ma, dall’espressione dei loro volti, si comprese subito che erano nervosi,

agitati e preoccupati.

Volevano occupare il Municipio, ma era chiuso e si rivolsero a mio padre. Papà, è

vero, lavorava in Municipio, ma non ne aveva le chiavi. Comprendersi, in lingue diverse e

a segni non è facile, lo è ancora meno quando hai un fucile puntato al petto. Rivedo la

scena, il terrore di mamma e la paura di noi piccoli. Alla fine i tedeschi occuparono la nostra

casa invece del Comune, e in men che non si dica, srotolarono 17 lettini e occuparono tutto

il primo piano; non si dormì quella notte.

Papà, terrorizzato per quello che sarebbe potuto accadere, rimase sveglio tutta la notte

e, al piano di sopra, dove eravamo tutti, passava da una camera all’altra, intimando a noi

bambini il silenzio assoluto e cercando di interpretare ogni minimo rumore. Per grazia di

Dio, la notte passò e alle undici del mattino seguente sgomberarono le camere occupate,

lasciando disordine, sporcizia e due scatole a forma di cilindro di latta con del formaggio

giallo, formaggio che avemmo paura di mangiare.

Ricordo ancora un lungo giorno trascorso con tante persone, credo oltre 40, tra

familiari tutti e vicini di casa, assiepati nel locale retrostante il nostro negozio e colmo di

merce. Non c’era molta acqua da bere, né tanto da mangiare per via dei combattimenti. Quel

giorno anche una vicina di casa, che non era mai venuta, chiese asilo e, grata, portò una

ciotola di granturco bollito, l’unico alimento che le era rimasto in casa.

Quanti ricordi, quanta paura, che terrore: è proprio vero che intendere non lo può

chi non lo prova. Ero piccola, è vero, però ancora oggi quando i media ci bombardano con

notizie di venti di guerra nel mondo, mi chiedo perché il cuore dell’uomo pulsa più per le

guerre che per la pace! Un’altra volta, un capo dei tedeschi, saputo che in casa nostra c’era

la radio, salì ad ascoltare le ultime notizie del bollettino di guerra.

Ci era stato recapitato, attraverso le sbarre di una finestra che affacciava sul retro

della casa, del pane appena sfornato, l’odore inebriante del pane fresco risvegliò la bramosia

del tedesco che brigò perché gliene venisse offerto scommettendo che, di sicuro, agli alleati

sarebbe stato offerto anche vino e formaggio, mentre a lui stavamo negando tutto. Accadde

proprio cosi!

Vedo ancora la lunga fila dei canadesi, ansimanti per la fatica dei tanti chilometri

a piedi, salire dalla rampa che immette in Piazza Municipio e passare davanti alle case, ai

portoni spalancati con gli abitanti pronti ad offrire acqua, vino, formaggio e pane a chi ne

richiedesse. Che senso di libertà, di euforia, di gioia sui visi di tutti, compresi noi bambini!

Ma nei tempi di guerra, la gioia è momentanea e scompare immediatamente nel momento in

cui, con un frastuono assordante, scoppia una bomba.

Quanto fumo, che aria irrespirabile, quanti frammenti di calcinacci, schegge che

incurvarono persino il ferro del mio balcone, crolli, terrore, terrore che cresceva di minuto

in minuto aggravato quando ci si accorse che mancava all’appello il mio fratellino più

piccolo, Salvatore, che a mala pena balbettava.

La disperazione, indicibile ed indescrivibile, si impadronì di noi familiari e dei vicini, non potevamo neanche mettere il naso fuori dai balconi per la polvere che, come una nebbia,

avvolgeva ogni cosa. Solo dopo un po’ tempo, che sembrò eterno, tra il fumo, in lontananza,

si intravide un’ombra che avanzava verso Piazza Municipio, aveva le braccia tese in avanti,

sembrava portasse un ferito… Man mano che si avvicinava alla nostra casa l’angoscia

cresceva a dismisura, una angoscia che si tramutò in un pianto di gioia e di ringraziamento a

Dio nel momento in cui un uomo, il banditore del paese, pose tra le braccia di mamma quel

frugoletto vivo e incolume che era stato in grado di farsi riconoscere.

Da quel dì i miei genitori fecero, ad ogni anniversario, un regalo a quel signore

che, sfidando il pericolo, corse a recuperare quel bambino. Qualche tempo dopo, quando la

vita sembrava stesse per prendere un ritmo normale, osai sostare sul balcone che affaccia

sulla piazza, giusto per respirare un po’ di aria buona, dopo tanto tempo vissuto nel terrore

e nella paura e chiusa nel retro del nostro negozio, dove, qualche notte, abbiamo

dormicchiato anche in 32 persone, tra adulti e bambini, coi tedeschi armati di tutto punto,

seduti sui gradini del negozio e del portone.

Ero sul balcone quando arrivò un camion carico di canadesi. Subito e velocemente,

cominciarono a scaricare tante casse che, di mano in mano, depositavano nel Comune.

Rivedo ancora quelle scene, mentre gustavo una fetta di pane, olio e zucchero. Un soldato, ad

un certo punto, cominciò a farmi dei segni, mostrando una scatola di cartone bianco, simile

a quelle delle scarpe. Non abboccai, anzi chiamai mamma e papà e solo dopo ripetuti inviti

a scendere al portone, accettammo di incontrare quel povero canadese che mi pose tra le

mani quella scatola. L’aprii e … meraviglia delle meraviglie, trovai una bambola bellissima con

un vestitino di organza a balze e gli occhi cerulei che si aprivano e chiudevano.

Era per la sua figlioletta lontana, ci mostrò una sua piccolissima foto sbiadita e

stropicciata. Probabilmente in me aveva rivisto la sua bambina. Commossi lo

ringraziammo e lo invitammo a salire in casa. Ci promise che sarebbe venuto volentieri

appena possibile, ma non è mai venuto, perché dopo qualche ora, un’altra bomba fu

lanciata su Gambatesa. Ci furono dei morti fra cui lui. Fu seppellito nel cimitero del mio

paese e i miei genitori, in occasione del 1° novembre di ogni anno, facevano una offerta al

parroco perché sostasse un poco anche sulla tomba di quel povero soldato, pregasse con tutti

noi per lui che forse, presago della sua fine, volle, con gioia, farmi dono della bambola

destinata alla sua bimba.

E’ un ricordo che, ancora oggi, tocca le corde più profonde del mio cuore e mi fa

“odiare” la guerra. La guerra finì, il disastro no. Ero già in età scolare, ma non si po teva

frequentare la scuola pubblica perché inagibile, così i miei mi mandarono da una brava maestra

ed in pochi mesi feci il programma di prima, seconda e terza elementare insieme con

qualche ragazza di quarta e quinta. Non ho ricordi di compagne di classe o di banco, non

ho foto né libri di quel periodo. Ho frequentato solo la quarta elementare e poi di nuovo la

preparazione, da privatista, per il salto e poi quelli di ammissione per la scuola media a

Campobasso. Sono questi i ricordi più nitidi del periodo della guerra: frammenti di vita

vissuti in un’atmosfera di angoscia, di incertezze, qualche volta di terrore, frammenti

ingigantiti, forse, nella mente di una bambina che li ha vissuti sulla sua pelle, anche se non

in maniera devastante.

Quanta sofferenza inutile, quanto spargimento di sangue, quante famiglie smembrate!

Io mi chiedo: perché ancora le guerre oggi? Tantissime altre testimonianze si potrebbero

raccogliere.Volutamente ne abbiamo riportate solo due, ma speriamo che ogni nipote voglia correre

dal proprio nonno, zio o vicino di casa e fissare pezzi di storia che rischiano di andare persi per

sempre._ “

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